Al confine sfumato tra organico e inorganico, tra vita e non-vita, il fossile è una testimonianza materiale e poetica dello scorrere e dello stratificarsi del tempo.
Jane Bennet
Ho cercato di porre l’accento sulla vitalità della materialità in sé, e finora l’ho fatto concentrandomi sui corpi non umani, dipingendoli come attanti piuttosto che come oggetti. Tuttavia, la tesi a sostegno dell’attività materica ha bisogno anche di rivedere lo statuto degli attanti umani: ciò non vuol dire negare i poteri ecccezionali e impressionanti dell’umanità, ma considerare questi poteri come una prova del fatto che anche noi ci costruiamo come materialità vitale. In altre parole, anche il potere umano è una specie di potenza delle cose. A un primo livello questa affermazione non è controversa: è facile riconoscere che le persone sono composte da varie parti materiali (la mineralità delle nostre ossa, il metallo del nostro sangue, l’elettricità dei nostri neuroni). È più difficile invece pensare che questi materiali siano vitali e auto-organizzati, e non mezzi passivi o meccanici guidati da qualcosa di non-materiale, cioè un’anima o una mente attive.
Probabilmente la tesi di una vitalità intrinseca alla materia diventa più plausibile se si guarda a una scala temporale molto ampia. Se si adotta la prospettiva del tempo evolutivo piuttosto che biografico, ad esempio, diventa visibile la forma minerale. Si consideri il resoconto di De Landa sull’emergere delle nostre ossa:
«I tessuti molli (gel e aerosol, muscoli e nervi) regnavano sovrani fino a cinquemila milioni di anni fa. Poi alcuni dei carnosi conglomerati di materia-energia che componevano la vita subirono un’improvvisa mineralizzazione da cui emerse un nuovo materiale per la costruzione degli esseri viventi: l’osso. Fu quasi come se il mondo minerale che era servito da substrato per l’emergere di creature biologiche si stesse riaffermando». (Manuel De Landa,A Thousand Years of Nonlinear History, p. 26).
Mineralizzazione è il modo in cui chiamiamo l’agentività creativa grazie alla quale è stato prodotto l’osso, dopodiché le ossa «hanno reso possibili nuove forme di controllo del movimento tra gli animali, liberandoli da molte costrizioni e mettendoli letteralmente in moto per conquistare ogni nicchia disponibile nell’aria, nell’acqua e sulla terra». Nel lungo e lento tempo dell’evoluzione, quindi, la materia minerale pare essere la potenza motrice attiva e agitatrice, mentre l’umanità, con la sua tanto lodata capacità di azione autodiretta, risulta essere il prodotto della materia minerale.
Per una materialista vitale, tuttavia, il punto di partenza dell’etica non è tanto l’accettazione dell’impossibilità della “conciliazione” quanto il riconoscimento della partecipazione umana in una materialità vitale condivisa. Noi siamo materialità vitale e ne siamo circondate e circondati […].
Ogni persona umana è un composto eterogeneo di materia meravigliosamente e pericolosamente vibrante. Se la materia stessa è viva, allora non solo la differenza tra soggetti e oggetti è ridotta al minimo, ma lo status della materialità condivisa di tutte le cose ne risulta accresciuto.
Roger Caillois
Le rose microscopiche delle diatomee, le sezioni minuscola delle radiolariti, i tagli anellati dei coralli, i canali paralleli delle palme, le stelle dei ricci di mare incessantemente seppelliscono nello spessore della roccia seminagioni di simboli per un'araldica senza blasoni.
L'albero della vita non smette di ramificarsi. Una scrittura infinita si aggiunge a quella delle pietre. Immagini di pesci che compiono evoluzioni come tra ciuffi di muschi nel cuore di dendriti di manganese. Un giglio di mare nel seno dell'ardesia oscilla sul suo stelo. Un gamberetto fantasma non può più scandagliare lo spazio con le sue lunghe antenne spezzate. Felci imprimono nel carbon fossile le loro volute e le loro trine. L'ammonite di ogni dimensione, dalla lenticchia alla ruota di mulino, impone ovunque il marchio della sua spirale cosmica. Il tronco fossile, divenuto opale e diaspro, come per un incendio immobile, si veste di scarlatto, di porpora e di violetto. L'osso dei dinosauri metamorfosa in avorio la sua tappezzeria a piccolo punto, ove a tratti luccica un rocco rosa o azzurro, color confetto.
Ogni vuoto è colmato, ogni interstizio invaso. Persino il metallo si è insinuato nelle cellule e nei canali da cui la vita è da gran tempo scomparsa. La materia insensibile e compatta ha sostituito l’altra nei suoi ultimi rifugi. Ne ha invaso le figure precise, i solchi più fini, così perfettamente da consegnare l’impronta anteriore al grande libro delle età.
Luce Irigaray
L’aria non è il tutto del nostro abitare in quanto mortali? Esiste un dimorare più vasto, più spazioso, e anche più generalmente quieto di quello dell’aria? Può l’uomo vivere altrove che nell’aria? Né nella terra né nel fuoco né nell’acqua, c’è un abitare possibile per lui. Nessun altro elemento può così fargli luogo di luogo. Nessun altro elemento porta con sé, o si lascia attraversare da, luce e ombra, voce e silenzio. Nessun altro elemento è a tal punto l’aperto stesso – senza necessità d’apertura o riapertura per chi non avrebbe dimenticato la sua natura. Nessun altro elemento è altrettanto leggero, libero, e secondo il modo “fondamentale” di un “c’è” permanentemente disponibile.
Nessun altro elemento è ugualmente lo spazio prima di ogni locallizzazione, e un substrato al tempo stesso immobile e mobile, permanente e fluente, nel quale molteplici tagli temporali restano swempre dei possibili. Nessun altro elemento è, senza dubbio, tanto originariamente costitutivo del tutto del mondo senza che questo carattere originario si compia mai in un primo tempo, una primarietà semplice, un’autarchia, un’autonomia, una proprietà unica ed esclusiva…
Ma questo elemento, irriducibilmente costitutivo del tutto, non si impone né alla percezione né alla conoscenza. Sempre qui, si lascia dimenticare.
Luogo di ogni presenza e assenza? Nessuna presenza senza aria.
Gwenn Rigal
Ma non è solo in Australia, in America e nel Sahara che si trovano popolazioni autoctone le cui origini si perdono nelle brume della preistoria. In Francia, il popolo basco è presente nel Sud-Ovest del paese da tempo immemorabile. Anche se la maggior parte del genoma dei Baschi attuali sembra provenire dai primi agricoltori neolitici (Günther, 2015), alcuni alleli del loro codice genetico li distinguerebbero dalle altre popolazioni del Nord Europa da circa ventimila anni (Alonso e Armour, 1998). La lingua basca supporta questa ipotesi. Anticamente parlata in tutta la Francia sud-occidentale, è l’unica lingua isolata dell’Europa occidentale. Come le lingue ugro-finniche (ungherese, finlandese, estone...), il basco precederebbe le invasioni indoeuropee nel nostro continente. Il linguista tedesco Theo Vennemann (2002) osserva che “terra” e “neve” si dicono in basco, rispettivamente, lur ed elur, un’e-quivalenza terra/neve che si ritrova in altre lingue molto antiche, e che sa tanto di èra glaciale. Lo stesso tipo di affinità etimologica esiste per “legno” (zur) e “osso” (ezur), e per “muro” (orma) e “ghiaccio” (borma). Inoltre, “ascia” si dice in basco aizkora, il che è stupefacente, perché aiz significa anche “pietra” (Morvan, 1985). Ma se, quindi, è possibile che il basco preceda l’Età dei Metalli, ciò non implica necessariamente che i Cro-Magnon della Francia sudoccidentale dialogassero in una sorta di proto-basco con quelli della Spagna settentrionale. E comunque, si ritiene impossibile resuscitare le parole preistoriche, poiché metà del vocabolario di una lingua si rinnova in media ogni tremila anni. Alcuni linguisti suggeriscono che i sostantivi più utilizzati – come anche i numeri, i pronomi e alcuni avverbi – siano più resistenti al passare del tempo e possiedano un ciclo di vita che si estende fino a diecimila o addirittura ventimila anni (Pagel, 2013). E basandosi su queste parole “ultraconservate”, essi cercano di stabilire dei ponti tra le sette principali famiglie linguistiche d’Europa e d’Asia (altaica, uralica, ciukotko-kamciatka, dravidica, eskimo-aleutina, cartvelica e indoeuropea) con l’obiettivo di identificare un’ipotetica “superfamiglia” eurasiatica che risalirebbe all’ultima èra glaciale. Ma l’argomentazione è debole. Si basa solo su poche parole e implica scale temporali che sfidano le comuni leggi della linguistica. Ciò nonostante, è probabile che alcuni antenati dei Baschi attuali abbiano dipinto nelle grotte, nei Paesi Baschi e nei Pirenei. E ancora oggi, la maggior parte degli esseri mitici pirenaici sono di tipo ctonio, cioè legati alla terra o al mondo sotterraneo. È possibile istituire un collegamento tra alcuni miti baschi e l’arte delle caverne? L’ipotesi è stata avanzata per il cosiddetto tabu “dell’orecchio dell’orso” (d’Huy, 2013a), che proibisce ai pastori di pronunciare ad alta voce il nome del plantigrado, il cui udito è ritenuto assai fine. I Baschi lo chiamano semplicemente “lui”, “il tizio” o “l’altro”. Anzi, il termine usato per designare l’orso in basco è scomparso. È stato sostituito dalla parola hartz, di origine celtica [...].
Laura Tripaldi
Lavorando con i materiali e confrontandomi con numerose occasioni in cui la comunicazione tra due superfici si è rivelata più complessa del previsto, ho capito che quello di interfaccia è un concetto più profondo e trasversale di quanto a un primo sguardo possa sembrare. Se dovessi conservare un singolo insegnamento, tra tutte le cose sorprendenti che ho avuto l'opportunità di scoprire studiando la chimica, sarebbe sicuramente questo: che l'interfaccia non è una linea immaginaria che divide i corpi gli uni dagli altri, ma che è una regione materiale, una zona di confine dotata di massa e spessore, caratterizzata da proprietà che la rendono radicalmente diversa dai corpi che l'hanno prodotta nel loro incontro.
Chiunque si trovi alle prese con un nuovo materiale si rende conto ben presto che quello che ne determina il comportamento spesso non ha a che vedere con la sua composizione o struttura più interna, che in chimica si chiama bulk, ma con quello che succede sulla sua superficie. L'importante è quello che succede nella regione in cui si realizza l'incontro, a volte semplice e più spesso complicato, tra quel materiale e qualcos'altro. L'interfaccia, in chimica, è definita proprio come la regione in cui due sostanze, dotate di proprietà chimico-fisiche diverse, si incontrano.
[…]
L'interfaccia è il prodotto di una relazione a doppio filo, in cui due corpi in interazione reciproca si fondono formando un materiale ibrido, diverso dalle sue componenti di partenza. Ancora più significativo è che l'interfaccia non è un'eccezione: non si tratta di un comportamento della materia che osserviamo soltanto in condizioni rare e specifiche. Al contrario, nella nostra esperienza dei materiali che ci circondano abbiamo sempre a che fare soltanto con l'interfaccia che essi costruiscono con noi. Stiamo toccando solo la superficie delle cose, ma si tratta di una superficie tridimensionale e dinamica, capace di penetrare sia all'interno dell'oggetto che abbiamo di fronte, sia all'interno di noi stessə.
L'idea dell'interfaccia come regione materiale, in cui due sostanze possono mescolarsi producendo un corpo ibrido e completamente nuovo, può essere il punto di partenza per ripensare, più in genera- le, il nostro rapporto con la materia che ci circonda. Se davvero tutti i corpi con cui entriamo in relazione si modificano e ci modificano a loro volta, non possiamo più illuderci che la materia sia semplicemente un oggetto passivo su cui proiettiamo la nostra conoscenza. Allo stesso tempo non possiamo nemmeno rifugiarci nell'idea, certamente comoda, che la conoscenza di ciò che non è umano ci sia completamente preclusa: che la materia che ci circonda sia, in fondo, del tutto aliena e inconoscibile, e che non abbia davvero nulla a che fare con noi. Abitando l'interfaccia, abbiamo l'opportunità di ridefinire la conoscenza della materia come un processo creativo e collaborativo a cui ogni materiale partecipa attivamente. Ogni volta che entriamo in relazione con un nuovo materiale, costruiamo uno spazio fisico di interazione reciproca, che modifica il mondo che ci circonda e che ci apre la possibilità di modificarci a nostra volta.
In questo contesto, quelli che siamo stati abituati a considerare come semplici oggetti della scienza sembrano animarsi, diventando invece soggetti veri e propri prendendo parte attiva al processo scientifico che li definisce e li studia. Sotto questa nuova prospettiva, anche i corpi che abbiamo sempre considerato inerti e passivi rivelano una capacità nascosta di intessere una rete di relazioni con noi e con il mondo che li circonda.
Villa Manin
Report della residenza artistica
Il periodo di residenza a Villa Manin, che ha visto coinvolte le coreografe e danzatrici Annamaria Ajmone e Veza Maria Fernandez, l’artista visiva Natália Trejbalová e la ricercatrice indipendente Stella Succi, ha permesso di seguire e testare diversi assi di ricerca per la costruzione futura dello spettacolo I pianti e i lamenti dei pesci fossili.
L’apparato teorico dai quali questi assi di ricerca si sono sviluppati nasce da un interesse nei confronti dell’interfaccia come spazio di relazione e base dell’esistere, così come descritto da teoriche come Jane Bennett in Vibrant Matter, Karen Barad nella sua teoria delle intra/azioni, e, nel contesto italiano, Laura Tripaldi in Menti Parallele. I corpi si rapportano, e nel rapportarsi modificano e vengono modificati, assumono caratteristiche e comportamenti unici, originali, inaspettati.
Nel lavoro in sala, Ajmone e Fernandez hanno quindi esplorato e incarnato l’interfaccia attraverso una serie di pratiche a partire dal dispositivo della voce. L’aria è infatti essa stessa da interpretarsi come “spazio prima di ogni localizzazione […], substrato al tempo stesso immobile e mobile, permanente e fluente […] elemento costitutivo del tutto”, così come definita da Luce Irigaray ne L’Oublie de l’air, uno dei testi fondamentali in questa fase di studio. La ricerca sulla danza ha messo in discussione lo stare “dentro al corpo”, provando invece a proiettarsene al di fuori, e specificamente nell’incontro con la materia. La pratica di Veza Maria Fernandez è stata, in questo contesto, particolarmente significativa per la sua esperienza nell’uso dell’emozionalità della voce per esplorare diverse forme di ascolto tattile.
Il respiro, nelle sperimentazioni di Ajmone e Fernandez, si è declinato come sussurro, come glossolalia, come canto che costruisce relazione tra i loro corpi ed altri corpi non-umani. È in questo particolare frangente che è entrata in opera la ricerca scultorea e visiva di Natália Trejbalová, che ha montato oggetti gonfiabili e rudimentali strumenti a fiato come possibili elementi per la costruzione di un corpo terzo suonante e riverberante sulla scena. Le danzatrici hanno interagito con gli oggetti, toccandoli, facendoli “esprimere”, attivando la loro esistenza.
Da queste pratiche nascono domande da esplorare in futuro – prima fra tutte qual è lo spazio performativo, la personalità di fonemi e quasi-fonemi. Durante la residenza sono state quindi affrontate nuove fonti bibliografiche di ispirazione rispetto a questo tema, condivise, proposte e interpretate dalla ricercatrice Stella Succi: nella fattispecie, Hildegard of Bingen's Unknown Language – An Edition, Translation, and Discussion di Sarah L. Higley, Narrazioni dell’estinzione di Elvia Wilkes, e Suoni fragili e selvaggi: Meraviglie acustiche, evoluzione creativa e crisi sensoriale di David George Haskell nella traduzione di Antonio Casto.
Un altro asse di ricerca corporea ha riguardato la pelle o membrana. Si tratta ancora una volta di un’interfaccia, ma questa volta organica. La voce delle danzatrici ha esplorato quindi la superficie del corpo, l’ha immaginata tridimensionale, resa spugna, penetrata, fino a giungere alle ossa del corpo, utilizzate anche, in alcuni frangenti, come cassa di risonanza e volano del suono. Il rapporto tra tessuto corporeo molle e minerale è stato particolarmente importante, perché ha permesso di indagare, attraverso la danza, il dispositivo poetico del fossile che ha stimolato i primi passi della ricerca. Il fossile, infatti, concretizza la connessione tra organico e inorganico, tra vita e non vita, tra lontano passato e futuro, muovendosi sul confine, intriso di mistero, che la ricerca di Ajmone intende percorrere per la creazione dello spettacolo.
Castrovillari
Lecture del 24. 05. 2024: testo di racconto della residenza artistica
In my practice, I envision creation as a common ground where to share a discourse with other people through encounter and dialogue. This working method enables me to swing constantly, and I have identified it as the most effective for my practice. The eventual output ends up reflecting none of us’ specific intentions, but something unique rises from this intersection. Through the “form,” my interests unfold: how to enable the cohabitation on Earth between human and more-than-human; how to build a relation between living and non-living materials.
My research lays at the boundary between scientific research and speculation about its results, questioning the hierarchies in which we are accustomed to read the world around us, looking for ways to rewrite them. All of this is done through a dialogue with my companions and through the means that each of us knows and operate with.
I pianti e i lamenti dei pesci fossili (The Weeping and Lamentation of Fossil Fish) involves another dancer and vocal artist, Veza Fernandez, who unfortunately was unable to attend this residency; visual artist Natália Trejbalová, who handles the set design; researcher Stella Succi, who works on theoretical and dramaturgical input; and Elena Vastano, who is not here and is responsible for the lighting design. We are also working with designer Giulia Polenta to create an online reader to share various elements of the creative process.
What we would like to do today is share with you part of the research we are conducting through the sharing of the themes we are addressing and how they are merging and connecting, the materials we are experimenting and testing, the narration of some practices we are developing, and the reading of some texts that have been sources of inspiration.
The title of the show is I pianti e i lamenti dei pesci fossili (The Weeping and Lamentation of Fossil Fish): what interests us about fossils from a poetic point of view is the fact that fossils lay at the blurred boundary between organic and inorganic, between life and non-life, and the process of sedimentation of time in layers of matter.
We are interested in exploring the possibilities of coming into contact with different, “inert” bodies and materials. Therefore, the practices at the center of the show are focused on relationship – built on stage by the presence of two dancers: Annamaria Ajmone and Veza Fernandez.
The desire to work on the relationship with “non-living” or “inert materials” (all questionable definitions) was sparked in us by the encounter with Parallel Minds, a book by scientist and theorist Laura Tripaldi. In this text Laura Tripaldi writes about how matter is permeated by a form of intelligence that arises from relationships, and that this relationship exists in a space that in chemistry is called an interface. The interface is the three-dimensional space where different elements meet, and in this three-dimensional space, the elements and materials behave differently than usual, creating a new reality. One example is water, which on a smooth surface takes the form of a drop: a way of being that exists only in the relationship, and which inspired us in the conception of the show.
So, we asked ourselves which interfaces to focus on, what allows our bodies to relate an inside and an outside, and we decided to work primarily on the air: for this reason, some of the practices at the core of the show are focused on the voice and the phonatory system as tools of connection within the interface of air. A text that inspired us in this regard is The Forgetting of Air by feminist philosopher Luce Irigaray. The other interface we concentrated on is the skin or membrane, the surface where two bodies touch, which separates an inside from an outside.
The residency at Primavera dei Teatri provided the opportunity to test the initial set designs. Visual artist Natália Trejbalová envisioned working on the dance floor, disrupting its almost “non-place” nature, and, consistent with the theoretical research of the show, working on the surface with soft and transparent materials, similar to skins. Natália then painted them with an airbrush using stencils. The idea is to work on imprinting and sedimentation: in fact, although fossils are three-dimensional objects, they originate from the imprint left by bodies placed on the ground and the gradual replacement of organic matter with mineral matter. The combination of the various elements, still in their preliminary stages, will create a large space on the dance floor.
We're sharing with you some practices we're developing, all of which have to do with relationship: Veza Fernandez is not physically present during this presentation, so it's important to try to imagine them in potentiality.
Skin Dance: Laura Tripaldi's text inspired me to work with the surface of the body and consider it as the engine of movement. How does my surface relate to other surfaces? Which information does it give me on how to organize my body in space and on how to move the space between me and the other body? And what if this body is unmovable? What if I dance with that curtain? What dance develops between our two bodies? I also imagine dancing with the hidden areas of the skin.
High Frequency Practice: through the exploration
of high frequencies sounds, we generate a space around us with our voices and then move it around.
Once we have grasped this sound space, we expand it towards each other, creating a zone between me
and Veza. This complex yet generative zone is intangible but dense. In this zone, dance and music
are generated.
We have identified four sound textures (floating, elastic, wild, circular):
their quality and structure create a volume of sound that we can move in the space.
Practice with Veza Fernandez: Veza's practice focuses on using the emotionality of the voice to explore different forms of tactile listening. I cannot convey this practice to you alone, but I will let you hear a recording from the last residency in Turin. The practice is based on singing an invented song together, with lyrics made of sounds, cries, and laments. In this practice, we use the voice to free emotional spaces. We sing together, and one voice merges into the other, through an improvisation process that delves into the shadowy areas of our vocal possibilities, and that does not involve words. In these times of obscured intelligence (borrowing this definition from Simone Weil), lamenting and crying is a right.
We are working on building the structure of the show, which is increasingly taking shape as a progressive layering of voices and practices: a structure that mirrors the sedimentation of geological layers over millions of years. The show, in fact, begins with a whisper, then there is an almost spoken practice (which we call words-no words or back back very back), and it concludes with an almost sung lament: a cry that accompanies the cycle of life and death, the transformation from organic to mineral, a cry that connects the Deep Time of fossil formation and the present of the Sixth Extinction, with the disappearance of entire living species.
Al confine sfumato tra organico e inorganico, tra vita e non-vita, il fossile è una testimonianza materiale e poetica dello scorrere e dello stratificarsi del tempo.
I pianti e I lamenti dei pesci fossili tenta di costruire relazioni tra corpi e tempi incommensurabilmente distanti e differenti, piangendo il ciclo eterno della trasformazione della materia, della vita e della morte, nel contesto della Sesta Estinzione.
Le possibilità della relazione sono esplorate dai corpi della danzatrici attraverso due interfacce: la pelle o membrana, che funge da motore del movimento connettendo l’interno e l’esterno del corpo; e l'aria, che viene attraversata dalle loro voci e trasformata in uno “spazio prima di ogni localizzazione”. Lo spettacolo prende la forma di una progressiva stratificazione di pratiche corporee e vocali che richiama la struttura stessa del fossile.
Anteprima: 10-11 settembre, Short Theatre (Roma)
Première: 24-25-26 ottobre, Triennale Teatro (Milano)